Yiden e la sua seconda vita

Yiden e la sua seconda vita

Gli propongo di incontrarci al bar dell’oratorio, già pregustando la cioccolata calda – niente male – che servono lì. “No”, dice lui, “vediamoci alla casa famiglia”. Obietto che potremmo disturbare, invece al bar non siamo tra i piedi a nessuno. “Neanche in casa famiglia”, taglia corto lui. Addio cioccolata calda.

Lui si chiama Yiden, non dice una parola più del necessario – o almeno non la dice con me – ama il calcio. A 25 anni ha un po’ di quelle cose solide, su cui basare il proprio futuro, che i ragazzi italiani non hanno ancora messo insieme: un lavoro fisso da tornitore, una vita autonoma, una ragazza, un buon giro di amici e di affetti. Tutte cose che si è conquistato con l’impegno, attraversando fasi della vita in cui altri avrebbero potuto perdersi.

Nella sala da pranzo della casa famiglia del Borgo Ragazzi D. Bosco di Roma c’è una teoria di bandiere colorate, di diversi paesi del mondo: sono quelli da cui provengono i ragazzi che sono passati di lì. Tanti. Lui viene dall’Etiopia: è arrivato quando aveva 12 anni, insieme ai genitori e ai fratelli, ha cominciato ad andare a scuola e a scoprire come si vive in Italia.

Ma, crescendo, ha cominciato ad essere scontento e poi a ribellarsi. I suoi compagni di scuola potevano uscire, lui no. Potevano andare a giocare a pallone, lui no. L’adolescenza è un periodo difficile per molti, per lui un po’ di più. Si paragonava agli altri e il paragone non reggeva. «Accumulavo rabbia su rabbia», spiega.

Non lo diresti, guardandolo mentre si muove sicuro nella casa famiglia, di cui ufficialmente non è più ospite ma di cui evidentemente fa ancora parte: si vede che è il suo territorio. Fatto sta che ad un certo punto è arrivato qui, dove «c’erano regole e bisognava rispettarle, ma potevo uscire con gli amici».
Per un anno non ha più sentito i genitori, con i quali non ha ricucito i rapporti neanche adesso. D’altra parte, dice, «non ho mai avuto nostalgia di casa. Adesso la mia casa è questa».

Probabilmente Yiden è uno che è riuscito a incanalare la rabbia e a farla diventare determinazione. Non è mai stato bocciato. Dopo le professionali ha fatto uno stage e in azienda sono stati molto contenti di lui. Tant’è vero che l’hanno richiamato per un contratto e poi l’hanno assunto. Monta cavalletti per telecamere: roba costosa, un lavoro che richiede concentrazione e precisione.

Compiuti i 18 anni dalle case famiglia si esce. Gli hanno proposto una soluzione di semiautonomia ed è andato a vivere con un volontario e la sua compagna. «Per me è come un fratello maggiore. Anche adesso che vivo da solo è un pezzo della mia famiglia e, ad esempio, le feste di Natale le passo con lui e con i suoi genitori». Lavoro e affetti restano i capisaldi della sua nuova vita. Lui li ha conquistati e adesso con giusto orgoglio può dire: «Sono stato fortunato, ma anche bravo». Ad esempio, «se sul lavoro, se mi serviva un’ora per giocare al pallone, recuperavo il sabato. Hanno capito che ero una persona affidabile».
Ora è abbastanza solido da progettare il futuro. Dentro ci vede «l’aspirazione a diventare caporeparto e il desiderio di farsi una famiglia». Di avere figli. Perché i primi anni della sua vita sono stati felici, in Etiopia, con gli zii e la nonna che lo ha cresciuto e con cui è ancora in contatto. «Non mangiavo, se non c’era lei», ricorda, «voglio dare ai miei figli quello che non ho avuto io».

Lo guardo mentre dice: «sono fiero di me. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste, ma mi sono anche impegnato. Gli altri si fidano di me».

Non si sta vantando. Seduto nella casa famiglia che gli ha permesso di “incontrare le persone giuste”, sta dicendo quanta fatica ci ha messo. E che ne valeva la pena.

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Paola Springhetti, giornalista freelance. Dirige il bimestrale «Reti Solidali» e collabora con varie testate, tra cui «Il Sole 24 Ore» e «Segno». Insegna giornalismo alla Pontificia Università Salesiana. Il suo ultimo libro è "Donna fuori dallo spot" (ed. Ave 2014).