Dal mio corpo ho imparato Dio

Dal mio corpo ho imparato Dio

La richiesta di trascrizione nei registri dello stato civile di un comune italiano del certificato di nascita di un bambino nato a fine 2013 con maternità surrogata in Ucraina, dove la legge consente la pratica dell”utero in affitto’ – vietata in Italia dalla legge 40 – non integra un reato.

Ho trovato questa notizia di qualche giorno fa sulla legalizzazione implicita della maternità surrogata, un fatto grave. E non solo per gli enormi problemi morali, ma anche perché così si rafforza l’idea del corpo come oggetto, come bene disponibile da usare e passare oltre. Come se non comunicasse, come se fosse sordo e muto.

Io dal mio corpo ho imparato Dio.

Ho partorito tre figli, e ricordo chiaramente che la prima volta, mentre provavo dolore, tentavo di resistervi irrigidendomi, avvinghiandomi al letto. Questo rendeva le cose più difficili, ma io pensavo a me stessa, mi dicevo: “che dolore, chi me lo farà fare di avere altri figli?”

La seconda volta ero già diventata madre, quindi la mia preoccupazione aveva cambiato destinatario: “forza, piccolo, dai, forza!”. Pensavo alla salute del mio bambino, facevo il tifo per lui, e mi aiutavo a sopportare il dolore cercando di rilassarmi in un modo che può sembrare assurdo: mi graffiavo le gambe, per distogliere l’attenzione dalle mie viscere.

La terza volta avevo capito. Quando arrivava il dolore ne avevo già chiara la fecondità, e lo assecondavo, abbandonandomi ad esso come alla mia proprietà più propria, certa che in quel dolore abitava la vita: sia io che la mia bambina stavamo nascendo insieme.

È stato il contrarsi delle mie viscere ad insegnarmi il valore della sofferenza vissuta nella speranza, vissuta nell’amore, ed è a partire da quel momento che ho davvero conosciuto il senso della Passione di Cristo.

Va bene, lo ammetto, fin qui niente di nuovo. Più volte nella scrittura la metafora del parto è utilizzata per descrivere il passaggio dall’afflizione alla gioia, dalla morte alla vita (per es. Gv 16,20-23).
Ma ero io che venivo fatta nuova: ciò che già sapevo intellettualmente ora lo conoscevo nella mia carne, e questa esperienza diventava chiave di lettura per la mia vita di fede, un filtro attraverso cui comprendere il reale, con ogni esperienza di dolore fisico o morale, anche quelle altrimenti insuperabili.

Quella risposta portava con sé altre domande.
Mi chiedevo: “se è nel dolore che veniamo partoriti, è nel piacere che veniamo generati: il piacere è la culla della vita. Cosa ci insegna di Dio?”

È una domanda che suonava strana anche a me che me la ponevo. In fondo ero stata ben educata all’accoglienza cristiana della sofferenza, ma di un significato cristiano del piacere (e del piacere sessuale in particolare) non mi aveva mai parlato nessuno. Eppure anche questa è una dimensione che ci appartiene in modo intimo ed assoluto, è parte del modo in cui Dio ci ha pensati.

Finché una sera, guardando mio marito accanto a me, ho intuito una possibile via di risposta. Il piacere può essere santo quando è vissuto nella medesima logica che rende santa la sofferenza: facendolo transitare dalla concentrazione su di sé verso il dono per l’altro.

Questo esodo da sé è essenziale nel fare l’amore secondo il sogno di Dio: l’esito è quell’arricchimento vicendevole nella gioia e nella gratitudine (GS 49) che segna la fine dell’egoismo e la nascita della coppia. In quest’armonia di dono è naturale aprirsi alla vita, amore che trabocca e prende carne. Che questa relazione di reciproco dono sia feconda e corrisponda al volto del Dio Unitrino l’avrei scoperto intellettualmente solo molti anni dopo.

 

Foto: Flickr/Claudia Mereu

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Sono nata in provincia di Vicenza nel 1960. Dico spesso che, dopo il diploma, ho frequentato due diverse università: prima, per diciotto anni, l'ateneo della famiglia; quindi, in parallelo, la Facoltà Teologica, dove ho completato il dottorato. Ho insegnato religione in un liceo fino al 2010. Adesso, oltre alla ricerca, mi dedico alla formazione: sono impegnata in vari modi nella catechesi di adulti e bambini e nella preparazione dei catechisti e cerco di condividere parte di questo lavoro attraverso il mio blog (www.asteccanella.altervista.org). La famiglia però è e resta la mia prima vocazione: mio marito e i miei tre figli sono preziosi, tra mille altri motivi, anche perché mi fanno capire quando la speculazione mi fa staccare troppo i piedi da terra.