ascesi

35. «Terra»: cioè sepolcro, morte da cui risorgere. «Mortificazione», ovvero uccisione dell’«idolatria»… Ben più ricco e «pasquale» è dunque il senso della penitenza, rispetto al solito manicheismo dualista corpo/anima, male/bene. E in questa accezione può essere persino recuperata l’idea dell’ascesi come scalata verso la perfezione spirituale: basta che non lo si intenda quale assurda misurazione empirica della virtù, quanto come il ristabilimento nella pienezza della propria vocazione umana originaria.

32. Perché è sempre «da Dio» che discende la liberazione, la grazia, il merito; non dai nostri volonterosi sforzi. Immaginiamoci allora l’ascesi come la «demo» di un giochino elettronico o un «promo» di un film di prossima uscita: ambedue i prodotti sono pensati per dare l’idea del risultato finale, tuttavia non possono (né vogliono) svelarlo del tutto. Noi possiamo figurarci più o meno bene l’esito del prodotto completo, però lo «spettacolo» si potrà godere soltanto quando e nei modi in cui avverrà la rivelazione definitiva predisposta dal «regista».

31. L’ascesi non è dunque «mortificazione» del corpo, ma la sua esaltazione massima, il suo ritorno all’origine divina. Se l’ipotesi è vera, si tratta di un capovolgimento di prospettiva carico di conseguenze anche nella pratica; il digiuno, per esempio, rappresenta il tentativo di sottrarsi alla pesantezza delle membra o alla schiavitù della fatica per procurarsi il cibo; l’astinenza rimanda allo stato paradisiaco dell’assenza di passioni ingovernabili; il sacrificio di qualcosa rivela la libertà dell’essere superiori alla necessità… Ma ognuna di queste azioni senza la pretesa di ottenerne il compimento assoluto.

30. Sì, l’ascesi deriva da Dio: non dunque un movimento di volontaristica ascesa occorre immaginarsi, bensì una discesa di grazia dall’alto. Solo con un intervento del genere, d’altronde, è lecito sperare nell’efficacia degli sforzi umani. L’«armatura divina» di cui parla Paolo è l’unico strumento che potrebbe ricostituire lo stato di perfezione anche corporea perduto dall’uomo nell’Eden: quando non c’era necessità di nutrirsi (digiuno), quando non esisteva dolore (cilicio), quando ogni desiderio era colmato prima ancora di esprimersi (rinuncia).

29. «La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio…». (Ef 6, 11-12). Forse non è chiaro a noi moderni che cosa Paolo intenda con «spiriti del male», senz’altro però due cose sono chiarissime in questo celebre brano: anzitutto la lotta spirituale non deve puntare alla materia, al corpo, e poi l’«armatura» non proviene da tecniche o regole ascetiche, bensì «da Dio»…

28. La lotta spirituale comporta certamente una parte «penitenziale» ed ascetica: la rinuncia, il digiuno, il sacrificio vi sono compresi, però non più come esercizi aventi valore in sé e tanto meno mortificanti della propria umanità. Al contrario: lo scopo finale del combattimento è un massimo di libertà personale (il distacco dalla cupidigia schiavizzante dei beni e del potere) e di comunione tra uomini (la condivisione invece dell’egoismo). Chiara dunque la differenza con la penitenza soltanto «negativa»: qui è più che mai il fine che giustifica i mezzi.

25. «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Da dove cominciare dunque una revisione dell’idea di penitenza cristiana se non dal Vangelo? E questa citazione, tante volte usata proprio per giustificare i metodi ascetici più cruenti, nel suo contesto rivela tutt’altro spirito; siamo infatti nel Getsemani la notte del tradimento e Gesù ha appena detto ai discepoli addormentati: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione».

24. Penitenza come purificazione rituale. Ascesi, ovvero salita per gradi verso la perfezione. Mortificazione come annullamento di se stessi per far spazio a Dio. Sacrificio quale accumulo di meriti spirituali. Rigorismo per reprimere le «tentazioni della carne» e punire la malvagia materia. Rinuncia come valore in sé… Tutti i possibili sensi, finora esaminati, della penitenza cattolica mostrano la loro insufficienza. Giunti a metà del cammino quaresimale, è ormai tempo di iniziare la pars construens del nostro «Cilicio digitale».

22. Quanto siamo andati lontano dalla penitenza che serve a rammentare a se stessi la debolezza umana, tutt’al più ad espiare positivamente la propria colpa! Ma anche dall’idea di ascesi-allenamento che aiuterebbe a crescere e a fortificarsi per conquistare la perfezione interiore. Qui siamo invece alla ricerca della sofferenza come valore in sé, secondo una teologia doloristica che interpreta persino il sacrificio di Cristo col bilancino: tot di patimenti corrisponde a tot di grazia.

21. Esiste dunque un sadismo «sacro»? Indubbiamente sì, e anch’esso andrebbe forse indagato con le categorie psicoanalitiche che si applicano alla sua versione laica. Il Settecento fu maestro in tali introversioni: secondo alcuni maestri spirituali, ad esempio, il grado più alto della mortificazione consisteva nell’«abbracciare volontariamente per amore di Dio le cose contrarie ai propri gusti, rinunziare a piaceri anche leciti, gustarli come se non si gustassero, con una rinunzia interiore per rendersi più simili a Cristo vittima».