Risorti di oggi: Immaculée più forte dell’orrore

Risorti di oggi: Immaculée più forte dell’orrore

Storia di Immaculée Ilibagiza, sopravvissuta – nel corpo e nello spirito – all’orrore del genocidio del Rwanda

Immaginate un bagno. Immaginatelo più piccolo. Ancora più piccolo. Un metro per un metro e mezzo, una doccia ed un water. Immaginate di trovarvi chiusi dentro. Non per qualche minuto, non per qualche ora. Per novantun giorni consecutivi. E non da soli: con altre otto persone, perfette estranee. Silenziose per forza, bloccate dal terrore e dall’angoscia.

Immaginate di dover dividere con le altre otto persone, oltre al ridottissimo spazio disponibile, anche un solo piatto di fagioli al giorno. Immaginate di non dover fare nessun rumore, né parlare con le altre persone. Di non potervi cambiare d’abito per novantun giorni. Di non poter dormire sdraiati.
Immaginate di vivere quei novantun giorni senza telefono, email, televisione. Senza nessun contatto con il mondo esterno. Senza nessuna notizia dei vostri cari. Immaginate di fare tutto ciò non per una scommessa, un gioco o un reality di dubbio gusto, ma per salvarvi la vita.

È quanto accadde, nel 1994, ad Immaculée Ilibagiza, allora ventiduenne rwandese di etnia tutsi. In quelle terribili tre settimane, venne trucidato un milione di esseri umani, uomini, donne, bambini: non con bombe sganciate asetticamente dagli aerei, ma con assassinii veri e propri, compiuti uno per uno, non da soldati ma dai vicini di casa, gente comune con cui fino a ieri si rideva e si scherzava. Uccisi a colpi di machete.

I genitori di Immaculée le intimarono di cercare rifugio presso il pastore protestante, un hutu moderato. Questi offrì a lei ed alle donne che erano andate con lei il minuscolo bagno, che divenne il loro bunker per tutta la durata dell’eccidio.

Due momenti di quei novantun giorni furono particolarmente atroci. Uno fu quando, dal di fuori del suo nascondiglio, sentì dei passanti commentare la spietata esecuzione, piena di macabro sarcasmo, di un giovane che non poteva essere altri che il suo amatissimo fratello Damascène. Immaculée intuiva anche la verità: dei cinque membri della su famiglia, solo lei ed il fratello Aimable, che studiava in Senegal, sarebbero sopravvissuti all’eccidio. Un altro momento orribile fu quando, una sera, udirono le grida straziate di una mamma che veniva assassinata, e poi, per tutta la notte, il pianto sempre più debole del suo neonato, che morì sul far del mattino.

Immaculée era piena di odio e risentimento, e continuamente cercava di immaginare come avrebbe potuto vendicarsi, non appena fosse uscita di lì. “Era tutto orribile, tremendo, racconta, ma una notte sognai Gesù, e da allora nulla fu uguale a prima. Rischiavamo di essere scoperte da un momento all’altro, ma dal momento in cui realizzai che Dio è onnipotente, tutto prese ad andar bene. La cosa meravigliosa della nostra fede è sapere che c’è il Cielo. Se i miei cari erano morti, voleva dire che erano tutti in Cielo. E quando cominci a pensare al Cielo, gioia, dolore, sofferenza, niente significa più molto. La vita sulla terra diventa piccolissima, quando si pensa a cosa c’è in Cielo. Ed è l’eternità. Quella gioia fu immensa. Noi siamo fatti per cose molto più grandi di quelle che ci sono qui”.

In quel momento realizzò il significato e l’importanza del perdono: “Non so dirti quanto il perdonare è stato, ed è tuttora, meraviglioso ed appagante. Quando ero arrabbiata, pensavo di avere buone ragioni per esserlo. La lotta si compì nel capire, nel comprendere cosa realmente significava il perdono. Ma quando l’ho capito, è stato il più grande dono della mia vita. È stato come deporre un immenso peso dalle mie spalle, sentirmi libera. Mi sembrava di non essere più in un bagno, ma circondata di fiori. Ho cominciato a pensare al futuro: avrò una vita bella, mi affiderò a Dio, lavorerò… sono stata incomparabilmente più fiduciosa nel mio futuro di quanto fossi mai stata quando ero arrabbiata. Ho iniziato a vedere tantissime possibilità, molte più di quante me ne potessi immaginare prima. Anche se nessuno degli assassini avesse mai saputo che li perdonavo, per me stessa è stato un dono”.

Ma Immaculée non si accontenta dei propositi. Non appena vengono liberati il Rwanda e lei stessa, Immaculée torna al suo villaggio, nella cui prigione si trova l’assassino di sua mamma e di suo fratello Damascène. Si avvicina a lui, e semplicemente gli dice: “Ti perdono”. Come è stato possibile, Immaculée?

“Quando incontrai l’assassino, per me semplicemente non aveva più senso avercela con lui. Lo vidi, ed ai miei occhi era qualcuno che avrebbe potuto compiere così tanto bene, ma aveva scelto la strada sbagliata, finendo in quel modo. Era certamente necessario fare verità sull’accaduto, per me stessa e per lui: io ho voluto però offrirgli una possibilità, per cercare di capire cosa aveva fatto”.

Il messaggio e la missione di Immaculée per gli anni futuri sono, di conseguenza, chiarissimi: “Penso che una delle mie missioni nella vita sia di aiutare la gente a trovare questo perdono, a vedere le cose in prospettiva. Io vorrei gridare al mondo che siamo fatti per amarci a vicenda ed amare Dio. C’è qualcosa dentro di me che mi porta a voler dire a tutti: amatevi, abbiate compassione gli uni per gli altri, non siate egoisti perché l’egoismo non paga. Io cerco di portare la mia testimonianza non solo per far conoscere e ricordare ciò che è accaduto in Ruanda, ma anche per venire in aiuto alle persone che mi ascoltano, al di là della loro provenienza. Quando parlo, spesso gli ascoltatori vengono poi a ringraziarmi con le lacrime agli occhi, confessando che odiavano qualcuno, o che avevano qualcosa di irrisolto nella loro vita, e che ora riuscivano a sistemare le cose nel loro ordine, a ridimensionarle. Il Ruanda è finito nel genocidio perché la gente si è dimenticata l’amore vicendevole: io cerco di ricordarlo a tutti, e questo è ciò che più mi rende felice. Se la gente avesse saputo amarsi, catastrofi come questa non sarebbero successe. Nell’odio non ci sono vincitori. Così, io spero che la mia storia potrà servire far comprendere e vivere questo messaggio…”.

Sì, Immaculée, la tua storia serve. Davvero.

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Chiara Bertoglio è una giovane concertista di pianoforte, musicologa, scrittrice e docente italiana. Formatasi presso insegnanti quali Paul Badura Skoda, Konstantin Bogino, Sergio Perticaroli, e diplomatasi appena sedicenne, Chiara Bertoglio ha tenuto il suo primo recital ad otto anni, ed il suo primo concerto con orchestra a nove; si è in seguito esibita nelle più importanti sale italiane ed estere, fra cui la Carnegie Hall, il Concertgebouw di Amsterdam, la Royal Academy di Londra, l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, collaborando con musicisti come Leon Fleisher, Ferdinand Leitner, Marco Rizzi e molti altri. Laureata e dottore di ricerca in musicologia, e con un master in teologia, ha scritto diversi libri e numerosi saggi per riviste specialistiche italiane ed internazionali, partecipando come relatrice a convegni prestigiosi (ad Oxford, Londra, Roma etc.). Impegnata nell’approfondimento dei rapporti fra musica e spiritualità cristiana, ha pubblicato libri sull’argomento; inoltre, scrive articoli e libri non musicali per diffondere storie positive di speranza. Svolge intensa attività didattica privatamente ed in importanti istituzioni italiane ed estere, sia come docente di pianoforte sia come musicologa.