Thomas Mann – L’eletto

Se evochiamo oggi in una classe delle superiori la tematica dell’incesto, ventilando l’ipotesi di una relazione amorosa tra padre e figlia, madre e figlio o tra fratelli, la reazione immediata che potremmo osservare è dapprima quella di una contrazione del volto, poi di una ritrosia fisica, infine di un espresso rifiuto: – Che schifo, prof.! -. Rarissimi i casi in cui ci si appella alla libertà di amarsi che avrebbero due adulti al di là del vincolo di sangue. Quei pochissimi che lo fanno, vengono subito tacitati dai compagni. Ciò significa che uno dei tabù fondamentali della società funziona ancora. L’incesto è escluso. Tanto più l’incestuoso. Ciò doveva valere maggiormente ai tempi in cui Thomas Mann, sul limitare della propria vita, scrisse il romanzo ‘L’eletto’ (1951), ispirandosi al poema Gregorio composto a cavallo del 1200 dallo svevo Hartmann von Aue: “una storia orribile e nello stesso tempo altamente edificante”. Storia di abissi e di trasfigurazione.

Gregorio, infatti, è doppiamente colpevole di incesto. Innanzitutto, per una colpa ereditaria. I genitori, Sibilla e Wiligis, sono fratello e sorella. Orfani di madre dalla nascita, e di padre al compimento del diciassettesimo anno, i due gemelli diventano subito dopo amanti, concependo “il bambino per il quale non c’è posto in nessun angolo del mondo”. Per evitare lo scandalo, Wiligis va in pellegrinaggio, dove morirà. Sibilla partorisce di nascosto, per poi tornare in patria da duchessa promessasi vedova per sempre. Il piccolo viene “esposto” alle acque del mare e condotto su un’isola sperduta, dove sarà battezzato con il nome di Gregorio e cresciuto prima da due pescatori, poi dai monaci del luogo, ma sempre sentendosi “estraneo” ad entrambi. Anche per lui il dramma si compie al diciassettesimo anno. Scopertosi “trovatello” e giudicatosi un “rifiuto”, Gregorio diventa un cavaliere errante alla “ricerca delle sue origini”. Casualmente approda in terra natia, dove duella per difendere la duchessa e la città. Vincitore, sposa Sibilla, la madre, concependo con lei due figlie: “qui la mente non è più in grado di pensare, davanti a lei si apre l’abisso”. E questa volta la responsabilità dell’incesto sarà personale, poiché “un giovinetto che si conquista una moglie, la quale per bella che sia può essere sua madre, deve pur contare con la probabilità che colei che sposa sia sua madre”.

Ma il segreto è presto scoperto da Sibilla, la quale confesserà tutto a Gregorio. Questi decide una vita di penitenza per entrambi. A ciascuno la sua croce. Lei, “in panni bigi” e senza titoli, dando asilo ai mendicanti insieme alle figlie. Lui, passando il resto dei suoi giorni sulla “sommità” di uno “scoglio a forma di cono” posto in mezzo ad un lago – qui condotto e incatenato con dei ferri ai piedi da un pescatore del luogo. Trascorsi diciassette anni, però, giungono in quel “luogo deserto” due uomini, Probo e Liberio, alla ricerca di quello che un agnello sanguinante aveva loro rivelato in sogno essere l’eletto a nuovo Papa. Il pescatore, solo dopo aver ritrovato nello stomaco di un pesce appena pescato la chiave dei ferri gettata a suo tempo nel lago, conduce i due a quell’“aspra roccia”, a quella “rupe erta”. A quel monte? I tre, arrampicatisi in cordata fin “lassù”, trovano sulla “cima” i ferri arrugginiti ma non l’eletto: “Egli stesso non è visibile. Ma dovremmo forse identificare invisibilità con non-essere?”. In realtà Gregorio, durante tutti quegli anni, “tanto si restrinse da diventar piccolo come un nano”. Ecco la “sublime trasfigurazione”: abbandonare l’immagine del Vicario di Cristo idolatrata dalla mente degli uomini…

Questo suo “concentrarsi”, infatti, questo suo “rimpicciolimento” in “figura deforme e nana” provoca subito una disputa tra i due delegati di Roma: “dovrò tornarmene in patria tenendo al petto una larva poco più grande di un riccio, coronarla con la tiara, porla sulla sedia gestatoria e pretendere che l’urbe e l’orbe la venerino come papa? Turchi e pagani schernirebbero la chiesa.” – afferma il cardinal Liborio. Come Pietro sul monte, non sapeva quello che diceva: “Dovremmo vergognarci al suo confronto e ostinarci a non riconoscere l’eletto perché ci appare in una bassa forma? Tu, amico mio, vedi troppo esclusivamente solo il decoro e la dignità propri della chiesa.” – risponde il laico Probo.

A sciogliere questo “segreto timore” che renderà silenziosa la discesa, provvede una seconda “trasformazione”, ossia il ritorno alla figura fisica originaria di Gregorio, volta però a far risaltare ancor di più la caratura morale dell’eletto, “esempio della straordinaria indulgenza così consolante per gli uomini e scandalosa per i rigoristi”: “egli fu amato fino in Persia e in Tracia, perché lo si ascoltava volentieri. Per le sue stupefacenti risposte venne chiamato ‘l’oracolo apostolico’, ma per la sua mitezza ‘Doctor mellifluus’ cioè ‘Il Maestro, da cui il miele fluisce’”. Sì, Gregorio Magno, il Servo dei Servi, vero vicario di quel Cristo con cui Elia e Mosè, la profezia e la legge, colloquiarono amabilmente sul monte e che la Voce nella nube esortò ad ascoltare…

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Sergio Ventura, romano del '73, giurista pentito, datosi all'insegnamento per la libertà di ricerca che esso garantisce, appassionato di religione perché - disseminata ovunque - permette di curiosare in tutto, è responsabile del Blog degli Studenti nel sito del Cortile dei Gentili.