Tela fragile: il velo africano di una veronica comboniana

Tela fragile: il velo africano di una veronica comboniana

Tra le tante veroniche del mondo, molte sono in terra africana. Spesso portano il velo corto da religiosa e sono in prima linea perché sono dei medici.

Il loro ministero è l’ospedale di una remota località che in pochi sanno trovare sul planisfero. A Sud del Sahara, in uno di quegli stati i cui confini sono tanto labili quanto sono nette e capricciose le righe tracciate sulla carta da chi decise il loro destino duecento anni fa, ci sono luoghi che sembrano tagliati letteralmente fuori dal mondo. Ma pieni di vita, di animali e di bambini. Tantissimi bambini.

Bébédja è là, vicino a Doba. Sembra in mezzo al niente; nel Sud del Ciad dove l’estate è così calda che non resistono neppure le zanzare. Là in un grande recinto c’è l’ospedale St. Joseph, un seminario e la casa delle religiose. Al centro un lungo portico con tante panche: sotto quest’ombra artificiale aspettano quieti file lunghe di pazienti che arrivano da ogni angolo della regione per farsi curare e si riparano così dai 50o gradi del sole pieno.

Le suore comboniane hanno qui una delle loro tante comunità che, tra le altre cose, lavora nell’unico ospedale della zona che è della diocesi. La suora medico fa tutto: visite, cure, conti e soprattutto sala operatoria per tutte le specialità di cui c’è bisogno.

E chi fa la strada per arrivare da lei è sempre grave, perché all’ospedale si va solo in casi davvero seri.
Moltissime sono le ferite causate da armi tradizionali (coltelli e frecce soprattutto) perché spesso i litigi si regolano con una specie di legge del taglione.

In più ci sono le frizioni dovute ai passaggi di confine delle popolazioni verso il Sudan o dal Centrafrica, a motivo delle guerriglie dei due paesi. La maggioranza è di religione musulmana e tollerante con i cristiani. Altre volte l’onda del fanatismo arriva col vento caldo sin qui. E le questioni sulla vita e sulla morte dei pazienti sono gestite a modo proprio.

Non è mai facile curare in condizioni di scarsità di mezzi; a maggior ragione se le armi circolano più del cibo. I feriti arrivano e chi li cura si prende una responsabilità: farli vivere significa stare dalla loro parte contro l’altra che li ha colpiti. E spesso è come una tela che di giorno si tesse curando e poi la notte, uscendo dall’ospedale, si disfa dopo poco.

La veronica asciuga un volto, recupera una vita; a volte la folla grida “Barabba” e fa giustizia da sé persino nelle corsie del povero ospedale. O è il capofamiglia che decide senza di lei chi e se far curare.
Altre volte la veronica riceve la gratitudine di chi ha curato, specie dai bimbi.

Non è facile. Spesso occorre alzare la voce. Non basta il cartello all’entrata che dice (e, soprattutto, disegna perché la lingua ufficiale, il francese, non lo parla nessuno e i 200 dialetti del paese sono solo tradizioni orali): “Non si possono portare le armi all’interno dell’ospedale”.

Le forze sono poche e se mai arrivasse una piena di profughi sin qui, nessuno avrebbe la forza per controllarla. O se Ebola si nascondesse tra le milizie che hanno strada libera per il paese, nessuno potrebbe controllarla. Il confine non esiste per i ciadiani. E lo Stato è un’idea vaga.

Non c’è solo questo, però. C’è anche la voglia sincera di fare festa e d’invitare tutti, anche les soeurs, alle feste di matrimonio, dove ci si scambiano promesse e beni (e armi) tra gli sposi e le loro famiglie. Perché tutti hanno un cellulare ma alla tradizione non si vuol rinunciare.

Qui le veroniche silenziosamente partecipano. La loro scelta di non avere famiglia non è compresa fino in fondo; ma la gente ne ha stima per la totale gratuità della loro presenza.

 

Suor Elisabetta Raule, medico e classe 1972, è religiosa comboniana dal 2003. Specializzata in malattie tropicali a Parigi, dopo un primo soggiorno in Mozambico, ora vive a Bébédja  in una comunità formata da 5 religiose provenienti da 4 paesi: Ecuador, Etiopia, Italia, Portogallo. Nella foto, al lavoro in sala operatoria.