Silvia ed Ugo Rossi si conoscono quando sono entrambi già adulti: un anno di fidanzamento, oltretutto vissuto a distanza per impegni lavorativi in Cina di lui, è sufficiente per rendersi conto che sono fatti l’uno per l’altra. Racconta Silvia, ridendo: “Abbiamo litigato tantissimo, da fidanzati! Per fortuna ci siamo sposati in fretta… Un giorno, istantaneamente, ho avuto una certezza: che quest’uomo, dalla notte dei tempi, era stato pensato da Dio per me. Era una delle piccole grandi certezze della vita, intuizioni come fiammelle che sono la strada per trovare il fuoco”.
Nasce Riccardo, nel febbraio 2008, e presto Silvia si trova nuovamente in dolce attesa: l’arrivo di Letizia è previsto per settembre 2009. È un periodo un po’ faticoso, e nessuno si stupisce più di tanto della stanchezza e debolezza che il giovane padre continua ad accusare. Finché arriva verdetto terribile: Ugo è affetto da SLA, la tristemente celebre sclerosi laterale amiotrofica. “Il nostro impatto con la SLA”, racconta Silvia, “è stato brutale. Lo specialista ha guardato in faccia mio marito e me, che avevo il pancione del settimo mese di gravidanza, e ci ha detto senza mezzi termini di non fare progetti a lunga scadenza; di non accendere un mutuo a dieci anni, e che se Ugo voleva fare una corsa oggi non la rimandasse a domani perché forse domani non avrebbe più potuto farla”.
Iniziano mesi devastanti, in cui, con velocità spaventosa, Ugo sembra cedere terreno alla malattia in una ritirata senza tregua: si accavallano, inesorabilmente, le tappe forzate di una disabilità progressiva e irrefrenabile. Un giorno Ugo non riesce più ad infilarsi le scarpe da solo, qualche tempo dopo è il turno delle calze, poi fatica ad alzarsi dal letto, poi le stampelle, poi la sedia a rotelle…
Ben presto inizia un movimento di amicizia e solidarietà che assume proporzioni sorprendenti. Gli amici, in particolare quelli del movimento di Comunione e Liberazione di cui Silvia ed Ugo fanno parte, si organizzano in turni: ogni sera arrivano almeno in due, con la cena pronta e le maniche rimboccate. La solidarietà assume anche una forte componente spirituale: “Noi sappiamo che quotidianamente qualcuno dedica tempo e preghiere espressamente per noi. Per me, in particolare, è come avere accanto una persona in più. È difficile spiegarlo, se non se ne fa esperienza: non sono parole vuote, che finiscono nel nulla, ma è un aiuto veramente concreto e sostanziale”. All’aiuto spirituale si affianca poi l’aiuto pratico: “Abbiamo persone”, racconta Silvia, “che vengono qui e danno una mano in tutto. Quando ho bisogno di qualcosa, alzo il telefono e trovo sempre una risposta maggiore delle aspettative”.
Per Silvia, è un’esperienza che si fa autentica storia di vita. “Ho imparato, prima di tutto, ad amare mio marito come non avrei mai immaginato e sperato: sono innamorata di lui e lo risposerei immediatamente, nella situazione in cui si trova. Ho compreso che una persona non è ciò che può o non può fare: il suo valore è altrove. E poi ho imparato a chiedere aiuto, amicizia, sostegno e compagnia. Troppo spesso siamo portati a cercare di far tutto da soli, arrogandoci il diritto di poter bastare a noi stessi. Invece siamo creature dipendenti, e in Ugo è evidente in modo eclatante. Lui, oggettivamente, dipende dagli altri in qualsiasi cosa: dalle più piccole, come grattarsi il naso, fino a quelle fondamentali come il nutrirsi o addirittura il respirare. E tuttavia lui mostra, in modo estremo, quello che ciascuno di noi è. Io stessa ho imparato a chiedere aiuto, perché oggettivamente non ce la faccio: è una situazione più grande di tutti noi. Si inizia a vedere che l’uomo è fatto per stare con gli altri, in un ambito comunitario. Sono convinta che chi muore di disperazione da un lato non si sia reso conto che ogni difficoltà racchiude possibilità buone anche per chi lo vive, e dall’altro si sia chiuso in se stesso, restando solo e così condannandosi all’angoscia”.
Via via, prosegue Silvia, si impara ad avere uno sguardo diverso rispetto alle cose, ed a comprendere cosa significa “guardare con gli occhi di Gesù: si scopre un altro mondo in questo mondo, e questo, in fondo, permette di essere lieti. L’esperienza della malattia non è un castigo, non è una sfortuna che capita, ma è proprio la modalità attraverso cui l’uomo può capire per che cosa è fatto, a che cosa è chiamato. A questo, certamente, ci chiamano tutte le circostanze della vita: ma quelle che risultano più faticose, in cui vieni messo alle strette, ti aiutano ad apprendere più velocemente e rapidamente. Lo stesso Gesù”, riflette Silvia, “ha dovuto passare dalla croce per poter risorgere, mostrando al mondo la sua vocazione. La sofferenza è contro la natura dell’uomo, e persino Cristo voleva evitarla; eppure dobbiamo passare attraverso queste prove, nella fragilità di un’umanità segnata dal peccato. Ma anche il dolore, come ogni circostanza e situazione della vita, è un modo in cui siamo accompagnati a scoprire il nostro vero destino, la nostra natura, il modo migliore di rapportarsi agli altri, di vivere in pienezza”.
Foto: Flickr/Jen Rossey