La tradizione ebraica di fronte all’importanza del Tempio
L’associazione fra Ebraismo e la parola “tempio” può evocare vari pensieri. Ne scrivo solo alcuni: l’immagine del Secondo Tempio come lo abbiamo visto in qualche film sulla vita di Gesù oppure, per chi è stato a Gerusalemme, quello che conosciamo oggi come Muro Occidentale del Tempio o addirittura, per i più esperti, l’immagine di qualche sinagoga in giro per il mondo (che viene chiamata “tempio”, come ad esempio il tempio maggiore di Roma sul Lungotevere).
Nel passo del Vangelo che leggiamo questa domenica, Gesù richiede ai suoi contemporanei – e a noi con loro – un cambiamento di prospettiva. Che cos’è il tempio? Perché è importante? Cosa dice oggi a noi e cosa dice oggi al mondo ebraico?
Menachem Lorberbaum, professore di filosofia presso la Tel Aviv University che si trova in questi giorni a Roma dove sta insegnando un corso all’Angelicum, mi spiega da dove nasce l’importanza del tempio nella tradizione ebraica.
“La centralità del Tempio nella storia dell’Ebraismo è in relazione all’importanza del culto sacrificale dei sacerdoti descritto nel libro del Levitico. Quando il tempio è stato eretto è diventato il punto focale della coscienza nazionale e religiosa del popolo ed è per questo che i giorni di tragedia nel calendario ebraico sono quelli della distruzione del tempio. La distruzione però va di pari passo con la redenzione e così si può capire come il tempio sia stato anche negli scorsi millenni un elemento centrale nell’immaginario escatologico ebraico .”
Facendo un doveroso salto di vari decenni, Lorberbaum si interroga su quale sia il significato del tempio oggi: “E ora che gli ebrei si trovano a dover affrontare per la prima volta le serie sfide che nascono dall’avere uno stato sovrano, dobbiamo anche affrontare questa parte della nostra tradizione e chiederci: quali sono le nostre aspirazioni religiose? Vogliamo ricostruire il tempio? Cosa è per noi oggi la salvezza spirituale?”
E partendo dalla tradizione stessa vediamo come non esiste un’unica interpretazione. “Per molti ebrei osservanti – continua Lorberbaum – la risposta è il tempio e il motivo è la sua centralità nel libro del Levitico e in quello del Deuteronomio. Tuttavia, allo stesso tempo, esiste anche una tradizione che critica profondamente il tempio e il suo culto. In Isaia leggiamo: ‘Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire?’ (Is. 66,1). Così ispirata, la tradizione ebraica ospita al suo interno sia la centralità dell’edificio in quanto tale ma anche l’invito a trasformare ognuno di noi, in quanto essere umano, in un tempio e vivere in quest’ottica il comandamento che abbiamo letto proprio lo scorso Shabbat: ‘Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro’ (Es. 25,8).”
“Abitare, shakhan, viene dalla stessa radice della parola shekhina, presenza, e qui si parla di un dimorare di Dio in noi. Un tempio di mattoni, come San Pietro, non può sostituire ognuno di noi che si fa tempio per la presenza di Dio nel mondo. Questo è il significato più profondo del santificare il mondo: trasformarlo nel tempio di Dio. Il tempio come edificio è solo il modello di come le nostre azioni dovrebbero santificare il mondo… Concentrarsi solo sull’edificio sarebbe un tremendo errore spirituale.”
Menachem Lorberbaum è professore di filosofia presso la Tel Aviv University e dirige il programma Beit Midrash dello Shalom Hartman Institute. E’ un visiting professor alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) a Roma.