Nostalgia istantanea – Dargen D’Amico

Nostalgia istantanea – Dargen D’Amico

Due anni fa, proprio di questi tempi, mi ferma sulle scale di scuola uno studente mai visto prima, che quasi mi urla: – Professore, ma è vero che ascolta il rap? – . Evidentemente gli era giunta voce che durante le lezioni citassi qualche rima del giovane Rancore (Lo spazzacamino), del primo Caparezza (Uomini di molta fede) o da un brano d’annata di Biska con i 99 Posse (Tu lo chiami Dio ma io non lo conosco). Mi prega di ascoltare una canzone, promettendomi: – Ne resterà stupito! -. Infilo le sue cuffiette e comincia un brano incredibile.

18 minuti e 26 secondi. Fino a quel giorno non avevo mai ascoltato un testo rap così lungo, anche se sostenuto da un ‘groove’ accattivante e caratterizzato da un principio e da una fine decisamente intriganti. Capisco cosa intende Francesco quando scrive: “…a noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono…”(EG, 105).

Chiedo chi canta. – Dargen D’Amico! -. Un rapper milanese considerato tra i più poetici della scena hip-hop, nonostante – o forse proprio per – il suo linguaggio ermetico. Quasi un cantautore. Un cantautorap – come ironicamente si autodefinisce. Che ha attirato l’attenzione, nostra e non solo, anche per alcuni brani spiritualmente evocativi, da Tempo critico, a Gocce di cielo, fino all’ultimo (album) D’iO: “mediazione tra il guardarsi dentro, il cercare se stessi, e al tempo stesso, il cercare qualcosa di infinito, di spirituale, Dio, si suppone, o D’iO, a voler essere più rigidamente filologi” (M. Monina). Metafore della cultura religiosa del nostro paese, come a volte si esprime Dargen, ma comunque trampolini per spiccare il volo verso “qualcosa di cui non si riesce a parlare”, “qualcosa che sia Altro-da-tutto [e che] non comporta una comprensione di quello che esiste oltre [e] che non saprei nemmeno definire”. Qualcosa, o Qualcuno, verso cui provare una ‘Nostalgia istantanea’.

Il brano è in realtà il frutto di una “esperienza” – anche se “per alcuni potrebbe essere anche un semplice esperimento” – “scritta nei momenti che seguono e precedono di poco il sonno, usando quel lessico da narcolettico, quel narcolessico” ed “ispirata dalla Bibbia, e dall’enciclopedia, andando verso un genere che definirei quindi enciclopedio”(17.34-18.05). Un flusso di coscienza in pieno dormiveglia, unico momento in cui dei dormienti da svegli quali ormai noi siamo possono confessarsi, confidarsi: “E dì una parola qualsiasi,  comincia con qualcosa di semplice, tanto è la prima cosa che dici,  nessuno sa cosa c’era prima,  guarda la Bibbia, comincia semplice, è sempre in classifica e continua a vendere, probabilmente il primo ad ascoltarla  si sarà chiesto – ma di che diavolo parla? – Le  parole da usare, sempre quelle,  l’arte è cambiare l’ordine, la vita è un’abitudine  ma capita sempre di perderne, e così sono sempre meno, estendo i significati come rimedio,  e in un futuro già palpabile userò per tutto un solo vocabolo”(0.22-1.00).

In questo senso appare terribilmente semplice il riferimento evangelico posto al termine del brano, ma di quella semplicità non semplicistica che segue l’analisi complessa e profonda condotta precedentemente nel testo. In confronto costante con il “maneggiare la morte con cautela” e “la mia verosimiglianza con Dio”, con “angeli asmatici in timido volo” e santi “tutti stanchi”, con un “Satana satellitare” e l’“ambiente cosmico” infinito, ma soprattutto con lei, quella Croce “che nonostante le preghiere non si muove”: “il segno della croce non è nelle dita, il segno della croce è sulle spalle,  Gesù non alza la mano, al diavolo, Gesù alza la voce,  il segno della croce non è nelle dita, il segno della croce è sulle spalle, Gesù si rialza ogni volta e si riprende la croce. Se Dio si incarnasse ancora finirebbe su una croce tutta nuova, ripreso dai telefonini in aria, ecco che cos’è la nostalgia istantanea. Se Dio si incarnasse ancora, ecco cos’è la nostalgia istantanea”(16.50-17.30). E vedere dal vivo (16.38-17.20) qualche giorno dopo, giovani e meno giovani, cantare con passione sotto il palco questa strofa finale, lascia stupefatti. Veramente un sempre attuale, post-moderno, ‘Dio mio, Dio mio, perché ancora non sei tornato?’. Segni questi che, a volerli cogliere, aprirebbero orizzonti insperati…

Se poi osserviamo che nel video della canzone un artista dipinge il ritratto del compianto Lucio Dalla – da Dargen considerato tra i suoi maestri per quel ‘4/3/1943’ in cui cantava la storia particolare di un figlio per l’epoca ‘illegittimo’ ma chiamato da tutti Gesù bambino – allora, forse, possiamo comprendere meglio uno dei sensi di questa nostalgia istantanea. Rievocando quindi il titolo di un vecchio brano di Dargen, possiamo dire che è il crocifisso colui che ha fatto “di vizi di forma, virtù”. Massima contestazione per questa società nella quale “ti viene chiesto un 8 perfetto invertito in piedi, fiero come un navigatore, un 8 da manuale”; massima speranza per noi, poiché sarà quando “ti ritrovi con quell’8 mezzo storto, mal vestito, lìlì per cadere, che puoi fare di vizi di forma virtù… E per esempio puoi sdraiare l’8, farci l’orizzonte, e farci l’infinito…”. Per questo, ‘cantautoreppa’ Dargen, “imita Gesù imita Gesù, fallo pure tu, fallo pure tu, fai di vizi di forma virtù”… Come fece Fabrizio De André sulla sua ‘Cattiva strada’ laddove “c’è amore un po’ per tutti”. Come fece Franceso De Gregori con il suo ‘Agnello di Dio’ a cui confessare “dovunque sarai, sarò”, da cui sperare “dovunque sarò, sarai”. Soldati, prostitute, spacciatori, rispettivi clienti, alcolisti, giurati, carcerati, tutti catturati nel meccanismo dello scarto, tutti scandali sui quali è spesso inciampato il cristianesimo ufficiale ma non quello crocifisso. Quello in cui se i lupi sono travestiti da agnelli, gli agnelli, forse, appaiono come lupi, di certo astuti come serpenti(Mt 10,16); quello in cui, conclude Dargen, “Cristo è stato  l’unico anticristo”…