Le “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini” risuonano spesso più tra le mura di un convento che in una piazza affollata. Lasciate alle spalle le grate di un monastero, è una certezza lungo le strade del quotidiano. Chi ascolta il silenzio non è mai solo con Dio: profondamente radicato in ogni vicenda umana, accoglie tra le sue braccia i corpi e il respiro dei fratelli, intuisce le voci costrette al silenzio o le grida che invocano aiuto.
“Un monaco è colui che vive nel tempo di Dio con l’orecchio teso in ascolto del tempo del mondo” diceva Giuseppe Nardin, abate di San Paolo.
Vivere ogni giorno con animo contemplativo, riscoprire il deserto del cuore – capace di accogliere il volto degli altri – non è solo per quanti han consacrato la loro vita, ma rappresenta un’esperienza di fede che sempre muove all’incontro e all’impegno.
Quanto vissuto nella preghiera personale o nella celebrazione diventa quella marcia in più che fa uscire dal tempio e andare nelle piazze dove abitare il proprio mondo, vivere il tempo feriale, ascoltare il cuore di un altro, respirare ogni situazione dell’umano che sempre è famiglia di Dio.
“Andate in pace”: un invito non si può ignorare, un mandato non si rifiuta … Il pane spezzato nel tempio si fa briciole di attenzione, lettura dei segni dei tempi, ricerca dei germi di risurrezione, speranza per il bene compiuto senza distinzione sacro/profano …
E tutto poi diventa a sua volta offerta:
“Accogli, Signore i nostri doni fra la nostra povertà e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che tu ora ci hai dato e tu in cambio donaci te stesso”.