In realtà le norme canoniche attualmente in vigore (cann. 1249-1253) prescrivono il digiuno – per coloro che hanno tra i 21 e i 60 anni – in due soli giorni dell’anno liturgico, il Mercoledì delle Ceneri (o il primo venerdì di Quaresima nel rito ambrosiano) e il Venerdì Santo (che si può estendere al Sabato santo, fino alle soglie della Veglia). I due momenti di digiuno hanno significati diversi: il primo è ordinato alla domanda di perdono e alla volontà di conversione personale, mentre il secondo è segno della partecipazione comunitaria alla morte del Signore.
La pratica antica del digiuno consiste normalmente nel consumare un solo pasto nella giornata, dopo il vespro. Si è consolidata, attraverso i secoli, l’usanza di destinare quanto risparmiato con il digiuno all’assistenza ai poveri ed agli ammalati. Significativo è il testo della nota pastorale dell’Episcopato italiano “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza” (4/10/1994). In essa si ricorda come il digiuno e l’astinenza rispondano “al bisogno permanente del cristiano di conversione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di implorazione dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al Padre”.
Come ogni altra pratica di rinuncia, esse coinvolgono la persona in tutte le sue dimensioni: sono prassi di preghiera con il corpo, che trovano il loro pieno valore quando sono compiute in spirito di fede, come atto d’amore personale e gratuito. Paolo VI però ricorda come non sia indifferente la situazione socioeconomica in cui si vive: se digiunare in solidarietà con il Signore e coi poveri ha senso in contesti di benessere, nei paesi dove la povertà e la fame sono endemiche è più significativo offrire al Signore le sofferenze quotidiane, senza ulteriori privazioni (Paenitemini, 1966).